Ieri, martedì 26 settembre, al Teatro Vascello, è andata in scena Elettra o la caduta della maschera di Marguerite Yourcenar con la regia di Luca Avogadro.
La cornice era le Vie dei Festival, giunto, alla sua XXIV edizione, quest’anno solo con le sue forza, per la prima volta senza il sostegno del Comune di Roma.
La scena sciatta ritrae una camera polverosa e disordinata.
Elettra e Teodoro parlano della vita trascorsa insieme, distanti, di una lontananza fisica e mentale. Lei una principessa, figlia di Agamennone, re di Argo, uno fra gli sventurati vincitori di Troia, il primo; lui, il giardiniere, lo sposo illibato, un miserabile, figlio di gente che non ha avuto nulla se non la casupola che Elettra abita, che Elettra disprezza. Attesa. I due vivono nell’attesa di compiere quell’atto di giustizia che avrebbe condotto a vendicare la morte del padre di lei, Agamennone, che impera, dall’alto della sua assenza, in una fotografia seppia di un militare recente. I due vivono nell’attesa di Oreste. Non è l’Oreste che siamo abituati a conoscere nei versi dei tragediografi antichi, l’eroe. È un bambino Oreste, che abbandona la reggia alla morte del padre, che dal seno materno viene consegnato alle braccia del presunto amico Pilade. Pilade assume qui un ruolo fondamentale, è lui la chiave di tutto. Lui che nutre Oreste, che lo vizia, che gli dona l’amore di un padre creduto morto, di un padre che solo lui conosce vivo, generando al contempo in lui, attraverso l’essenza di Elettra, l’inderogabile necessità di vendicare un padre, creduto tale, morto. Pilade è volubile, ambiguo, liquido.
Colpevole Pilade? Allettato dal denaro forse, o dalla gloria, o forse dall’amore per ambo fratello e sorella tanto distanti nei loro ruoli invertiti. Così delicato lui, Oreste, paffuto ed elegante, così efferata lei, nei suoi desideri di sangue, Elettra.
Elettra piccola e minuta, vittima di un destino ostile, di una genia perversa, di una volontà ineludibile, ferrea, trema solo una volta. Tra le braccia di Pilade. Solo una volta Elettra è donna, fragile. Quando si sente voluta, amata da braccia di uomo. Dura un attimo, poco prima dell’ingresso di Clitennestra, volgare, maligna, senza scrupoli. Clitennestra muore senza spargimenti di sangue, per mano di Elettra, soffocata dalle sue stesse parole, spezzate da un cuscino premutole sul viso.
Clitennestra muore sola, senza il suo Egisto. Uno dei tanti, il primo. Egisto entra. L’incedere elegante, il capello laccato, non si scompone davanti il corpo esanime della donna, chiede solo gli venga lasciato suo figlio, Oreste, figlio di Egisto, non di Agamennone. Egisto la cui unica colpa è stata aver voluto tutelare il piccolo Oreste, consacrandolo o condannandolo alla dinastia degli Atridi. Oreste rimane, mentre Elettra e Pilade abbandonano la casa. Rimane, sprigionando, in un solo attimo, tutta la fraterna furia vendicativa assorbita per anni. Afferra un coltello e colpisce nevroticamente la carne di suo padre. Con i suoi boccoli biondi e la pochet nel taschino della giacca. Egisto, imperturbabile, muore, camminando verso Clitennestra, moglie infedele madre di suo figlio. Egisto, morendo, non giustifica l’atto, perdona sordidamente il figlio, con lo stesso amore con cui, da lontano, lo aveva accudito.
La tragedia si svela piano, lenta, nelle trame che l’hanno costruita. La verità prende piede poco a poco e di quei volti che la tragedia greca racconta eroici, immensi, incorruttibili non restano altro che semplici uomini con le loro debolezze, ambizioni, con la loro semplice mediocrità.
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