Metamorfosi si cela, al numero 30 di Via Giovanni Antonelli, ai Parioli, dietro un pannello di legno simile ai shoji giapponesi. Al posto della carta di riso, però, una vetrina, varcata la quale, si accede all’interno del gioiello reso celebre dallo chef colombiano Roy Salomon Caceres.
Metamorfosi è caldo e accogliente, luci soffuse e separé in legno rendono l’ambiente intimo e confortevole. Il servizio è cordiale e formale al punto giusto, senza risultare mai ingessato.
Per la nostra serata abbiamo optato per il menù degustazione ExpresionX10, un menù di circa tre ore, dove attraverso dieci portate abbiamo avuto modo di testare la cucina di Roy, sapientemente preparata da Ciro Scamardella, sous chef del cuoco colombiano, chef emergente per il centro-sud nell’anno 2016, formatosi alla corte di Anthony Genovese. Roy Caceres era in Colombia, sabato, ma Ciro, con il suo baffo arricciato all’insù, la sua abilità unita ad umiltà e simpatia, non ha fatto sentire la sua mancanza.
Il nostro percorso è iniziato con una rivisitazione del classico pane e olio; una pagnottina fatta con grani antichi originari della Sicilia, lievitata per 20 ore, da intingere in una emulsione ghiacciata di olio extravergine di oliva. Stupefacente croccantezza della crosta di pane su cui spiccava la nota amaro-pungente tipica dell’olio nuovo.
A seguire, dopo un entrée a base di insalata di calamari al vapore, sedano croccante, spuma di patate e nero di seppia in polvere, una piuttosto lunga serie di antipasti, tra cui spiccano per presentazione e golosità la “foglia di grano”, tonno rosso ed erbe e l’uovo a 65°. La prima altro non è che una foglia di bietola verde brillante con all’interno un impasto di mais, tonno rosso, erbe aromatiche, misticanza e crema di ceci servita su una sezione di tronco d’albero. Il tutto senza una mise en place. La foglia, con su una goccia di gel di lime, va mangiata con le mani, a mo’ di tacos.
Il secondo antipasto lo hanno portato al tavolo contenuto in quello che sembrava un uovo di struzzo fatto di granito. Una volta aperto, davanti agli occhi, un ponticello di legno con su della cotenna e mezze maniche soffiate da riversare sulla spuma di pecorino sottostate che nascondeva al suo interno l’uovo cotto a 65° gradi e del guanciale. Un’esplosione di sapori e consistenze. Uno dei piatti preferiti, senza dubbio.
Tra i primi, spiccano per genialità di inventiva l’anti-pasta gamberi gobetti e cannolicchi, cannolicchi che per la prima volta ho assaggiato quella sera. Un piatto incredibile, dove quelle che sembrano tagliatelle con il pomodoro, sono in realtà filamenti di brodo di pesce filtrato e gelificato condito con un’emulsione di teste di gamberi. Uno dei piatti cult di Roy, che tuttavia, per mancanza di un troppo amore per il pesce, come accennavo qui, è stato nella mia scala di gusto personale surclassato dal secondo primo: risotto “opercolato” funghi e nocciole.
Questo è stato decisamente il piatto per cui vorrei tornare da Roy stasera stessa. Un piatto “primitivo”, portato in un coccio coperto da una membrana di funghi e cipolla rossa, su cui viene versata della robiola di capra calda, che, forando in qualche secondo l’”opercolo”, rivela, al di sotto, un meraviglioso risotto mantecato con parmigiano vacche rosse, funghi cardoncelli – che amo – crema di nocciole, nocciole tostate, kikuna e drangoncello.
Il piatto si degusta con un cucchiaio di legno d’ulivo ideato e intagliato dallo stesso chef.
L’opercolo, invece, o quello che ne rimane, in sala ci suggeriscono di mangiarlo con le mani. Un piatto futuristicamente antico.
Il terzo primo, che poi ci è stato servito per secondo, non l’ho assaggiato, lo hanno presentato come il piatto più estremo, con plancton e tartufi di mare. E passino i cannolicchi, ma il plancton, che studiavo alle medie sul libro di scienze, e i tartufi di mare erano davvero too much, per me, sempre come spiegavo qui.
Con i secondi tocchiamo vette gastronomiche, ancora per me inesplorate. Delicatezza spinta declinata prima nell’astice servito su cavolo nero alla brace, foglie di cappero, limone e sedano rapa e poi nel manzo wagyu – che burrosità! – affumicato e accompagnato da una melanzana in salsa satay.
Il dolce, infine, è un fantasmino bianco lucido e brillante che nasconde dentro di sé del sorbetto alla camomilla, delizia per occhi e palato.
La cena è stata degnamente accompagnata da un bianco friulano dell’azienda biodinamica Damijan Podversic, un Kaplja del 2013, blend di chardonnay, friulano e malvasia istriana, servito fuori ghiaccio a temperatura ambiente.
Dieci portate e oltre e non sentirle, nonostante l’intolleranza al lattosio e l’assenza del mio Lacdigest.
Quello che ho amato da Metamorfosi, oltre il cibo e la cornice del ristorante, è stata la perfetta sinergia tra cucina e sala, la continuità impeccabile. Ogni piatto veniva descritto e spiegato e valorizzato e tante volte composto in sala, con il giusto mix di formalità e sorrisi.
Varcando la porta di Metamorfosi, si entra in un mondo altro. Dove ogni piatto ha la capacità di riportarti nel passato o proiettarti nel futuro, dove la mise en place, cambia ogni volta, fino a scomparire del tutto. Legno, ceramica, metallo, coccio, pietra. Ogni materiale è scelto con cura, trattato esso stesso al pari degli ingredienti edibili, con cui si armonizza come se ne fosse parte integrante.
Ho amato Metamorfosi sotto ogni aspetto. Tornerò per il risotto opercolato, per vedere Roy e, solo forse, per assaggiare, per la prima volta, plancton e tartufi di mare.
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