Conosco Retrobottega da prima che aprisse, da una cena riminese di fine settembre 2015.
Mariano Guardienelli – chef dell’Abocar due cucine di Rimini – mi raccontava che, a breve, un suo amico/collega avrebbe aperto un ristorante a Roma, nelle vie del centro. Un ristorante che avrebbe scardinato la comune idea di ristorante. Retrobottega, gli pareva si fosse dovuto chiamare. E così, in effetti, si chiamava il ristorante che, qualche mese dopo, aprì al numero 4 di Via della Stelletta, tra Campo Marzio e Via della Scrofa.
Cenai da Retrobottega, la prima volta, la sera del mio 27simo compleanno. Chiamai, non accettavano prenotazioni, ma fecero uno strappo alla regola.
Il locale era piccolo, ferro e legno. Retrobottega ruotava attorno al bancone che separava una sala informale e conviviale, dalla cucina. Dietro il bancone, i ragazzi, gli chef, preparavano i piatti davanti a te, se eri fortunato a capitar seduto di fronte a loro. Per il mio compleanno, ci avevano sistemato in una saletta in fondo, un unico tavolo apparecchiato con tavolette di legno dai manici in pelle. Non c’era vetro, né ceramica nella mise en place, che non c’era. Non c’erano posate d’acciaio. Una mise en place in divenire. Posate, piatti e bicchieri monouso ed ecosostenibili rendevano comunque i piatti eleganti, belli a vedersi e meravigliosi a mangiarsi. Ho ricordi vaghi e confusi sulla cena di quella magnifica serata di due anni fa, un sicuramente carpaccio di vitello tonnato, e la foto di un deducibile risotto zucca, guanciale e nocciole tostate.
Dopo quel 23 gennaio del 2016, sono tornata da Retrobottega un’infinità di volte. Ho sperimentato il servizio che non c’era. Il concept iniziale prevedeva, infatti, che non ci fosse personale di sala. L’ospite/cliente doveva essere autonomo nell’apparecchiatura, nella scelta del piatto dalla lavagna – unica forma di menù prevista – e nell’approvvigionamento di cibo e bevande.
Ho sperimentato le lunghe attese davanti a quella porta di vetro; da Retrobottega la regola era e rimaneva che non si accettassero prenotazioni. E io, che odio aspettare, per loro, al freddo, ho atteso anche un paio d’ore. Negli anni, il servizio di sala è stato implementato, i camerieri erano i ragazzi che giorni prima potevi tranquillamente aver visto in cucina. C’era continuità tra i due ambienti, in perenne e armoniosa comunicazione tra loro. C’era un’estrema valorizzazione di una materia prima eccellente, imprescindibile base di piatti unici nel loro gusto, elaborati dall’amore, la perizia, la ricerca e l’esperienza degli chef Alessandro Miocchi e Giuseppe Lo Iudice.
Questo fino alla fine del 2017, quando, a dicembre, si decide di voltar pagina: Retrobottega annuncia due mesi di chiusura per rinnovo. Rinnovo che avrebbe investito i locali e parte del concept da cui i due chef e amici erano partiti, una volta lasciata la cucina di Anthony Genovese. Nei due mesi di chiusura, Retrobottega si è trasformato in un pop up restaurant. Un ristorante temporaneo, allestito in un bellissimo appartamento posto in Via Fabio Massimo, in Prati, aperto solo il fine settimana, per un totale di 14 fortunati ospiti a pasto. Sette settimane di pranzi e cene monotematiche, dedicate con una cadenza settimanale, ora al mare, ora al mondo sotterraneo, ora ai tartufi, ora alla selvaggina, ora alle uova, ora al quinto quarto. La nostra settimana, quella in cui la domenica i miei amici mi hanno portato a pranzo, è stata quella dedicata al veg. Al fantastico mondo vegetale, fatto di erbe, fiori e tradizioni, cui ci ha introdotto, un esperto di etnobotanica, con cui i ragazzi avevano trascorso la lunedì-giovedì, in Abruzzo, alla ricerca di materia prima da cucinare e da utilizzare come supporto delle preparazioni. L’esperienza è stata totalizzante, immersiva. Un pranzo dentro una lezione di botanica circa uso e leggende popolari di ciò che qual giorno era dentro il nostro piatto o sopra il nostro sasso.
A fine febbraio termina l’esperienza del pop up restaurant e si è pronti per ripartire, il 15 marzo è la data. Nel frattempo le foto su Instagram, facevano il loro, per suscitare l’acquolina in bocca, seppur fossero per lo più riprese di dettagli strutturali, di certo poco edibili.
Veniamo così al 15 , anzi al 17, giorno in cui ho prenotato – gioia – una cena per le 21:30.
Unica novità sostanziale consiste nella possibilità di prenotare. Il resto ha solo modificato, restaurato, ammodernato la forma.
Cambio logo per i ragazzi. Una R al contrario e tanto ferro, a rendere l’ambiente un sereno mix tra il minimale, l’elegante e l’industriale. Oggi, esiste un menù, un unico foglio, il cui bordo è cucito di rosso. Cinque piatti per ogni portata, che vanno a toccare tutti gli ambiti trattati e approfonditi dagli chef nei due mesi di chiusura/studio/pop up restaurant.
Il nuovo Retrobottega, punta sulla convivialità e sulla centralità della preparazione del cibo: 2 tavoli sociali da 10 e il mitico bancone da 6, che è dislocato in fondo, mentre prima la faceva da padrone, al centro della sala. I tavoli, privi di tovaglia, sono concepiti perché diano sulla cucina, sul pass, dove uno chef, impiatta e ultima le preparazioni; il tovagliolo, così come le posate sono nel cassetto scorrevole al di sotto della postazione di ognuno.
L’ambiente, nonostante il colore dominante sia un grigio canna di fucile e alle pareti siano affisse foto in bianco e nero (mi pare di ricordare), risulta comunque essere vivace, i ragazzi sono sorridenti, così come i commensali. C’è il servizio in sala, ma spesso è la nostra chef di riferimento a servirci e spiegarci il nostro piatto.
Per la cena, optiamo per il menù degustazione da cinque portate a 50 euro, comprensivo di due antipasti, un primo, un secondo e un dolce.
Quella sera, scegliamo di puntare sulla cacciagione. Il primo antipasto, Gamberi e radicchio, buono, ma eccessivamente delicato, si lascia dimenticare facilmente, surclassato dal gusto spinto e persistente del secondo: cinghiale e calamaro, fantastico.
Proseguiamo con il primo, che è stato il piatto preferito della serata, quello che, se avessi avuto, a fine cena, un piccolo spazio di stomaco ancora disposto a ospitare cibo, avrei ripetuto: tajerin capriolo e cicoria. Buonissimo, un gomitolo di spaghetti sottilissimi e consistenti al tempo stesso con imprigionati o incastonati filamenti di cicoria e pepite di carne saporita e tenerissima.
Per secondo poi, l’immancabile piccione, molto molto buono. Coscietta e petto, già pronti all’uso. Siamo lontani dai tempi della sezione orizzonale di piccione servita direttamente nel piatto. Il piccione e carciofo del nuovo Retrobottega è un piatto elegante e memorabile.
La degustazione termina con un dolce cioccolato, caramello salato e triple. Un dolce dolce, stemperato dal caramello e dall’amarognolo della spuma di birra.
Come vino, abbiamo scelto un Ottomarzo 2016 della naturalmente sarda Cantine Dettori.
Una cena strepitosa, culmine e, direi, nuovo inizio di una storia fatta di preparazione, abnegazione, studio e passione per ciò che si fa.
Un enorme in bocca al lupo a Giuseppe e Alessandro, ai ragazzi di sala e cucina, al loro progetto e alle loro aspettative. Io tornerò presto, ho un tajerin in sospeso e una voglia matta di carrè di maiale e broccoli.
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