L’Eracle di Emma Dante è senza dubbio lo spettacolo del cuore di questa 54a edizione del Festival del teatro greco di Siracusa, organizzato dalla Fondazione Inda.
La scenografia realizzata da Carmine Maringola è imponente, evocativa; rappresenta il muro di un cimitero, uno qualsiasi, uno del mondo, costellato di foto in bianco e nero di chi non c’è più. Uomini qualsiasi. Di un mondo senza tempo.
La tragedia inizia dalla fine. Entrano in scena tutti gli attori e, disposti l’uno accanto all’altro, al ritmo incessante di un tamburo, gridano il loro personaggio, presentandone la vita e gli aspetti che condizioneranno il dipanarsi dell’intreccio. Gli attori sono donne, ad eccezione del coro, costituito dai vecchi abitanti di Tebe. Gli attori sono tutte donne, quasi la Dante avesse voluto dare scacco matto a quel teatro del IV secolo, quando solo l’uomo era chiamato a battere la scena. Le donne dell’Eracle sono donne vestite da uomini. Conservano la loro femminilità nei capelli lunghi, nella fisicità, che non viene mascherata, ma anzi esaltata dai costumi realizzati da Vanessa Sannino. Eracle e Teseo, protagonisti del dramma, sono uomini, prima ancora che divinità. La difesa è il fil rouge di questa tragedia, il prendersi cura, la salvaguardia, la generosità. Esiste una netta distinzione tra i buoni e i cattivi, nella cui ultima schiera rientrano pure gli dei, capricciosi e vendicativi, testimoni, nelle loro voglie bambinesche, della distanza che, nel suo teatro, Euripide prese dalla sfera del divino.
La tragedia inizia con Eracle lontano, nell’Averno, intento a compiere la sua ultima fatica, ad uccidere Cerbero e portare in salvo Teseo. Eracle è assente sulla scena, ma c’è nelle parole, nei gesti dei personaggi, nelle ragioni che spingono loro ad agire o a non agire. La sua aurea è presente sin dalle prime battute, quando la famiglia del semidio è in preda al panico per la crudele fine che l’usurpatore Lico, assassino di Creonte, re di Tebe, padre di Megara, intendeva farle fare. Lico, vuole la testa dei ragazzi, della giovane donna e del vecchio Anfitrione, perchè, creduto Eracle morto, avesse potuto governare su Tebe, senza minaccia alcuna, da parte di eredi al trono pronti a reclamarne il diritto.
Ormai sfiancata dall’inutile resistenza e pronte alla morte, Megara decide di cedere, ma ad una condizione, che Lico avesse lasciato morire lei e i suoi cari, con dignità, con addosso abiti regali, propri della loro condizione, da cui erano stati strappati, ridotti a vivere in povertà alle soglie di un palazzo che, prima dell’eccidio di Creonte, era stato il loro.
La preparazione alla morte è forse una dei momenti più toccanti dell’Eracle della Dante. La scena si svolge in una delle vasche antistanti il muro cimiteriale. La più grande. Piena d’acqua, acqua che purifica, che lava. Una sorta di rito di iniziazione, dove la disperazione, nella follia, diventa gioia per un destino paventato che mai sarebbe potuto attuarsi. Megara veste i suoi bambini con gli abiti della festa, pettina loro i capelli e adagia i loro colli sul bordo della vasca, lei indossa un abito di seta bianca, elegante sposa di una morte ingiusta e un destino infausto. Parla ai figli, racconta loro, con gioia, il destino splendente che li avrebbe attesi, e i bambini, dimentichi per un attimo della spietatezza del fato, saltano, corrono in quella piscina di pietra bianca, giocano, tornano bambini, loro che adulti non sarebbero mai stati. Megara parla, e ride e piange al contempo, avendo dinnanzi, insieme al sogno di gloria, la terribile concretezza della realtà.
Il destino, in procinto di compiersi, subisce, tuttavia, un’improvvisa battuta d’arresto con l’entrata in scena di Eracle, terreno deus ex machina, che, attonito, guarda prima le foto dei morti sul muro che si erge al limitare della scena e subito dopo il quadro dei vivi: l’esecuzione della propria famiglia. Interviene, allora, acclamato dai cari, dal coro dei vecchi – che addirittura ne chiede un autografo, quasi fosse una star, all’ennesima tappa della sua tournée in giro per il mondo – e sgomina il terribile Lico e il suo terribile seguito di esseri mostruosi. Tutti sono felici, ma la quiete ha i minuti contati. Poco dopo, il giovane figlio di Zeus sarebbe impazzito, di una furia indotta da Iris, messaggera degli dei “serva di Era”e portata a compimento da Lyssa, che, figlia della notte, avrebbe annebbiato la mente del nobile Eracle, portandolo a sterminate cruentemente e inconsapevolmente la sua sventurata famiglia.
L’eccidio avviene, come è solito nella tragedia greca, all’interno del palazzo, da cui provengono urla, le spaventate delle vittime e quelle efferate dell’incosciente mattatore.
Eracle, macchiato del proprio sangue, giunge poi sulla scena, solo, mentre è calato il buio nel teatro di Siracusa. Versa in uno stato di trance, l’eroe, che, semi-dormiente, entra nella vasca, di nuovo acqua, che deterge e purifica. Eracle dorme, al collo ha le catene, le stesse con cui si inchiodano le belve feroci. Dorme Eracle, inconsapevole. Il coro si dispera e così il padre, per la tragica morte della nuora e dei nipoti e per il destino cui andrà incontro il figlio, nello scoprire l’accaduto. Non vuole, dunque, si svegli Eracle, invita i tebani al silenzio, ma alla fine l’eroe apre gli occhi e lo spettacolo lo travolge. Inconsapevole, convinto di aver sterminato il seme di Euristeo, solleva sconvolto i teli che coprivano i morti in cui riconosce la propria famiglia. Ercole è atterrito, piange come un leone ferito, si dispera, medita il suicidio, unica forma di riscatto, nell’etica greca, dinnanzi a un crimine così grave, o forse unica via d’uscita dinnanzi a una sofferenza insormontabile.
Lo salva Teseo, l’amico Teseo, quando gli ricorda, benevolo, il suo valore e l’inconsapevolezza del suo delitto. Gli ricorda il suo coraggio, le fatiche affrontate, lo ammonisce dal riversare “chiacchiere da uomini qualunque” e lo invita a sopportare, a farsi carico dell’errore e andare avanti, nonostante la colpa, facendosene carico: “Se un uomo è nobile sopporta, rassegnato, i colpi che gli infliggono gli dei”. E così gli tende la mano e lo porta via da quel campo di sterminio, lo invita a non girarsi verso la morte, che lo chiamava nelle fattezze del padre disperato, lo conduce con sé ad Atene, dove “purificherò le tue mani dalla contaminazione del delitto, ti darò una casa e dividerò con te le mie ricchezze […] questa è la gratitudine che ti offro per avermi salvato la vita. Ora hai bisogno di amici”. E così se ne vanno i due amici, simili nell’aspetto, complici nell’anima. Se ne vanno e il coro, lasciato indietro, chino a piangere quelle morti innocenti, da nero che era, si colora di fiori, omaggio alle vittime, augurio a colui che, a una facile morte, ha preferito una vita coraggiosa.
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