Le 11:00 di un sabato mattina di fine estate – è già autunno da un paio di settimane, ma l’aria è tiepida e il tempo dei gelati non finisce mai. Via dell’Aeronautica, 104. Le saracinesche di Torcè sono ancora abbassate. Mi faccio un metro avanti, il cancelletto del cortile della gelateria è accostato e lui c’è, ma non è per via dell’appuntamento.
“Piacere, sono Martina, vengo qui da più di 10 anni e non ci siamo mai presentati. Ho un blog e una passione per l’enogastronomia. E un amore incommensurabile per il gelato e del tuo, ne mangio minimo uno al giorno. Posso farti un’intervista?”
“Piacere, Claudio – ride, tendendomi la mano – se proprio non hai niente di meglio da fare”.
Claudio Torcè è un’istituzione all’EUR, a Roma. Il suo gelato e la sua altezza. Il volto buono. E la sua presenza. A qualsiasi ora del giorno e della notte, con qualsiasi temperatura, Claudio c’è. Seduto su una delle panchine del dehor della sua gelateria, a fumare una sigaretta sotto i portici di Via dell’Aeronautica, all’interno del suo laboratorio vetrato.
Claudio ama quello che fa. “Io volevo fare il gelato” ripeterà più volte nel corso di una chiacchierata di più di due ore, dove, insieme, abbiamo ripercorso più di trent’anni di vita.
Quarto di quattro fratelli, dove tre erano donne. In gambissima “La prima laureata in Fisica Nucleare, 108. La seconda in Medicina, 110 e lode. La terza in Matematica, 106. E io?” La famiglia Torcè, dal 1935, possedeva e gestiva un alimentari a Piazza Vittorio, Pane e pasta. “Ci lavoravano mio padre e mio zio. Io ero reduce dal militare. 19 anni e lo studio non era la mia passione. Iniziai a dare una mano lì.” Pane e pasta non era il mondo di Claudio. Ma è stato il preludio di tutto. Diciannove anni è il tempo delle scelte. Attuate, deluse, abbandonate, rimodulate, vincenti. Non è facile quando i tuoi hanno un’attività. Spada di Damocle. Non è facile quando hai un enorme senso di responsabilità. “Lavoravo lì, fin quando, mio cognato Giovanni, il fratello che mi era sempre mancato, il confidente che avrei sempre voluto, apre una gelateria e mi coinvolge. Mi piaceva andarci”.
Claudio non abbandonò il negozio di famiglia, ma si divideva tra l’uno e l’altro. “Di mattina servivo rosette, al pomeriggio facevo gelati. In gelateria era tutto semplice”. Torcè parla di calma, serenità. “All’alimentari tutti andavano di fretta. Poi, mica c’erano le bilance elettroniche, allora. I conti dovevi farli a mente e intanto sbrigarti. In gelateria era tutto facile. Cono misto frutta, coppetta misto creme, magari senza cioccolato. Erano altri tempi.” I tempi in cui un gelato piccolo costava ottocentocinquanta lire, in cui non c’era alternativa ai preparati industriali. In cui i clienti neanche li sceglievano, i gusti. In cui, il gelato era semplicemente un dessert che si mangiava d’estate, a cui si chiedeva solo di essere grande e dolce.
“Intanto ero entrato in società con Giovanni, ma scalpitavo, non sono fatto per essere arginato – sorride in romano Torcè – e così tra il 1989 e il 1990 me ne sono andato. Ho abbandonato la gelateria di mio cognato con due certezze: voler fare il gelato e volerlo fare per conto mio. Ma per conto mio nel vero senso della parola. No banco, no pubblico. Volevo un laboratorio. Volevo sperimentare, giocare. Ormai avevo imparato. Ormai ero convinto di saperlo fare, il gelato. Chi se li scorda quei martedì, a saracinesche chiuse, da Giovanni, a provare, provare, provare. Di certo non la mia fidanzatina di allora, con cui le litigate si sprecavano – ride – però poi è diventata mia moglie. Quindi qualcosa di buon lo avrò anche fatto”. La separazione da Giovanni, dà avvio alla seconda vita di Claudio Torcè, quella che lo porterà a diventare imprenditore, gelatiere, che lo porterà a realizzare il suo sogno di gelato senza pubblico, di gelato di qualità, che lo porterà ad essere Il Gelato, a Roma.
Ma la strada non fu breve, né tanto meno semplice: “Sono caduto tante volte, nella mia vita, ma ho sempre trovato il modo di tirarmi su”.
Lasciato il cognato, Torcè si mette alla ricerca di un locale che potesse diventare il suo regno. Nell’era pre-digitale, c’erano le Pagine Gialle e Porta Portese, che usciva, in edicola, il martedì e il venerdì, ma nulla, fin quando “un pomeriggio, una voce nella mia testa, arrivata da chissà dove, mi sveglia dal mio riposo post-prandiale con una domanda: – ma stai guardando sotto la voce LABORATORI? – No. Afferro, allora, il giornale, che giaceva malamente sulla sedia di fronte al letto, e il mio laboratorio era lì: Via Gaspare Gozzi, 117. Era il posto mio.”
Qualche lavoro di messa a punto, un furgone, un box, qualche tribolazione per l’autorizzazione ad aprire e si parte. Tutto era pronto, tranne il gelato. Il gelato di Torcè non piaceva. Non funzionava. Rifiutato. “Senti Torcè, o cambi te, o cambio io”, alias “O cambi modo di fare il gelato, o io cambio gelatiere”.
“Ma secondo te era buono ‘sto gelato?”
“Io facevo il miglior prodotto che ero in grado di fare, ma era un gelato di periferia, era un gelato per essere fatto e mangiato, sulle lunghe distanze non reggeva, ghiacciava, si scioglieva. Dopo qualche anno, ho scoperto che non sapevo fare niente.”
Millenovecentonovantaquattro e nel mondo del gelato capitolino entra San Crispino, Via Acaia, 56, San Giovanni. San Crispino usava solo prodotti naturali. Niente preparati, niente polveri. Niente coni.
“E chi lo avrebbe mai potuto pensare che da 1kg di nocciole potesse ottenersi il gelato alla nocciola?” Era la mia domanda ricorrente. Era possibile, qualcuno lo aveva fatto. Dovevo studiare, capire, sperimentare, usai libri e internet, nell’era in cui su internet ci andavi arrampicandoti sui fili di modem rumorosisissimi. E non era manco detto che lo raggiungevi. Fu allora che scoprii la mia chiave di volta: la proteina del latte. La proteina del latte rendeva il gelato cremoso, stabile, risolveva tutti i guai. Fu la mia prima alleata. Il secondo, il gusto allo zabaione, che un giorno decise di riuscire perfetto. Sai quando a un certo punto un bambino impara ad andare in bicicletta? Quando tolte le rotelle, dopo le prime cadute, i primi tentennamenti, va?! Ecco per me fu così. Annotai la ricetta e da lì ogni gusto fu facile. Avevo il metodo. Il gelato piaceva, mi chiamavano ad insegnare. Molti posti sono nati dalle mie ricette chiuse in una busta con il logo che fino a due anni fa marchiava i miei prodotti”.
Un logo elaborato da un cliente della gelateria di Giovanni. Quando oltre a internet, non c’era neanche autocad.
Da Torcè è dipeso il successo di tante gelaterie che oggi costellano le guide gastronomiche, di quelle che rientrano nelle classifiche tra le migliori dieci di Roma. Tanta generosità, un pizzico meno di riconoscenza. L’ennesima delusione è stata la spinta per aprire lui, la sua gelateria. Il Gelato. Via dell’aeronautica, 104. Era il 2003.
“San Crispino s’era inventato che il gelato solo in coppetta, io feci della varietà, oltre che della qualità, il mio punto di forza: una vetrina di 9 metri per cento gusti di gelato, più di dieci differenti tipologie di cioccolato, quando il cioccolato era ancora solo al latte o fondente, un po’ come il misto creme o misto frutta delle gelaterie degli anni ’80-90”.
Prezzi poco più alti della media. Porzionatore in luogo delle palette, gusti salati. “Se tanto devo allo zabaione, altrettanto lo devo alla mortadella”. Torcè si inventò i gusti salati, la mortadella come strategia di marketing: “L’avevo messa nell’ultima vaschetta dell’ultima vetrina. La gente entrava solo per vedere se fosse vero. Magari il gelato non lo comprava, ma intanto era entrata in negozio e si era fatta quasi dieci metri di banco, di gusti”.
E poi arriviamo ad oggi. Quando Il Gelato è Torcè, e il latte utilizzato ad alta digeribilità e la panna pure e il fruttosio ha preso il posto del saccarosio. Quando ogni giorno c’è qualcosa di nuovo, ogni giorno è una sorpresa. La novità di quest’estate i cremolati, di questo autunno i gusti passione. Semifreddi. No, gelati mantecati con la panna montata.
“Come fanno a stare alle stesse temperature degli altri gelati?”
“Perché so’ bravo” ride Claudio, che intanto sono volate due ore, che mi svela quello che ha in serbo per l’anno prossimo.
Posso dirlo? Cialde preparate in loco e panna montata a frusta.
Il gelato con tutta un’altra storia, recita il payoff del nuovo logo. Un’altra storia rispetto a prima, mi spiega Torcè. Io, dico un’altra storia rispetto al resto. E non è questione di gusto, sapore. Non è solo gelato. È amore, dedizione, presenza. Io Claudio, sono più le volte che l’ho visto dietro la vetrina del suo laboratorio, a sistemare la sua gelateria, il suo regno, che dietro al banco a servire il suo gelato, dove non l’ho visto mai. Umiltà e generosità e idee, che vengono senza che le cerchi, come il laboratorio di Gaspare Gozzi, come la proposta di Giovanni.
Ognuno ha una strada, bisogna solo essere bravi a individuarla, a percorrerla, nonostante le difficoltà, bisogna fidarsi dei suggeritori e di noi stessi. Che nessuno meglio di noi sa dove vuole andare. Claudio Torcè voleva fare il gelato. E oggi il gelato, a Roma è Torcè.
Leave A Reply