Il mio nuovo divertissement è andare nei ristoranti e scegliere di mangiare cose che non mi piacciono.
Prenoto da Trippa – Trattoria circa un mese fa, quando sarei voluta andarvi, ma non c’era posto. Quindi, eccoci qua, un mese dopo, sullo sgabello, di fronte al bancone che, stasera, non avrei potuto desiderare di meglio. Sono praticamente in cucina. Cena intima, io, la brigata e i miei tre vicini a rotazioni, tutti con il tajarin al tartufo bianco, fortunati loro e fortunata io, che, alla fine, qualche profumo ha colpito un po’ anche a me.
Arrivo con la mia solita presenza ingombrante, in più ho un woolrich, uno sciarpone di qualche metro, guanti della montagna e zaino con ombrello che fa prepotentemente capolino. Mentre mi preparano la postazione, intralcio il passaggio di tutti e, tra uno scusa e un sorriso, continuo a fare foto con sfacciata naturalezza. Il mio posto è pronto. Trippa. Sono eccitata, come la prima volta da Gennaro Esposito – una decina di anni fa – che non avevo mai mangiato pesce. La specialità, qui, è il quinto quarto, lo so. Vediamo. Mi portano il menù. Leggo. Ci sarebbe la Battuta di Fassona di Martini alle nocciole, un volto amico, in un mare di piatti che mi guardano con aria di sfida. Potrei prendere quella e l’amichevolissimo Taglio di bovino alla brace, purea di patate e verdure di stagione. Però certo, venire qua e non assaggiare neanche un piatto fuori dagli schemi, i miei schemi, o quelli che erano, beh, mi sembra un po’ uno spreco. Arriva Vincenzo Critelli, che mi seguirà e guiderà, sorridente, per tutta la serata, ed elenca i fuori carta. Lampredotto, testina di vitello, panunto con fegatini di pollo. Ok. Insieme alla testina di vitello, parla di pistacchi. Mmm. “É lo scalpo dell’animale”. Aia. No.
“I nervetti non ti piacciono, scusa?”
“No”
“Lo sai che il posto si chiama Trippa, sì?”
Timidamente sì.
“Vabbè se non vuoi sperimentare, oggi, prenditi la battuta e, la prossima volta, assaggerai qualcos’altro”.
Eh no.
“Vada per i nervetti”
“Sicura? Ne vuoi mezza porzione?”
Eh no – di nuovo. Se uno le cose le deve fare, le fa fatte bene. Una porzione intera e che Dio ce la mandi buona.
Intanto, spizzico qualche oliva che mi – letteralmente – passano, come benvenuto, dalla cucina, insieme a una ciotolina di taralli . Poi arriva il vino. Bianchello del Metauro della cantina Di Sante. Una robina tranquilla per iniziare. Metto in carica il telefono, faccio foto e arriva il mio piatto: porri di Cervere, nervetti di vitello e bagna cauda.
“Quali sono?”
“Loro”
Ok. I nervetti sono serviti su un letto di porro stufato, con abbondante bagna cauda a coprirli e limone candito. Primo assaggio. Morbidume e alice. Strano. Proseguo. Arriva il limone.
“La bagna cauda di Diego non si batte”
È la prima volta che l’assaggio. Ma sì, mi piace. Piatto tenerone, che ti scalda, ti abbraccia. Sono sempre ancora un po’ diffidente. Comunque, la consistenza è particolare, però mi piace e me lo finisco. Ti è piaciuto? Mi è piaciuto. I nervetti non sono ancora entrati nella mia comfort zone, ma il piatto mi è piaciuto e sono felice. Attendo il secondo con più rilassatezza: Stocco alla brace, cavolo cappuccio al cumino, maionese alle acciughe.
Mi versano, stavolta, un rosso, un barbera, Don Barbè di Stefano Banfi. Fruttatone, buono, mi piace. Attendo il mio stocco. E, intanto, il posto di fianco al mio viene occupato. Grandi felicità all’arrivo del mio commensale. Manfredi. Il nome mi dice qualcosa, “avvocà”, poi lo guardo e mi ricorda qualcuno. Insomma, Manfredi Franco è stato nominato – insieme all’amico e partner-in- crime, Alberto Rigolio – “Cliente dell’anno” dalla guida de L’Espresso, presentata qualche giorno fa, a Firenze. Avevo letto qualche articolo al riguardo, mi aveva colpito il fatto che, in sua vece, spesso, gli amici, nei loro giretti mangia-bevi-goderecci, si portassero una sua sagoma. Avevo pensato mi sarebbe piaciuto essere nominata “Cliente dell’anno” e che ci si poteva lavorare. E beh, Manfredi si siede accanto a me.
“Ma tu sei quello della sagoma!”
Chiacchieriamo di ristoranti-chef-vini-viaggi-tour enogastronomici, che io sono fissata, ma con Manfredi non c’è gioco.
Intanto arriva lo stocco. Uau. Piatto bello, pieno di cose. Lo stocco campeggia su tutto, ricoperto della sua stessa pelle, croccante.
“La pelle, mangiala”, mi intima Vincenzo.
Figurati che mi fa una pelle croccante, dopo la prova appena superata. Primo assaggio, fumo. Spaziale. La carne del pesce è callosa, le verdure su cui poggia – cavolfiore e verza – sono croccanti. Cumino, maionese arricchita con acciuga. È un piatto meraviglioso. Intanto, Manfredi, per l’indomani, mi prenota un posto da Marco Ambrosini. 28 posti.
Alle 21? Andata.
Basta un messaggio. Basta poco, sempre. Carta dei dolci. No possibile. Alcune strette di mano e quattro chiacchiere fuori il locale, sulla passione più bella del mondo.
Sono stra-entusiasta per il mio posto tra i 28. Torno a piedi nel mio ostello, stavolta camerata da sei, solo donne, bagno in camera, dignitosissimo. Non piove ancora, qui, a Milano, dove è prevista pioggia senza soluzione di continuità. Ripenso alla mia cena.
Trippa è un posto fighissimo. Un’osteria tradizionale con piglio futuristico. È la cucina della nonna con i tatuaggi e la bandana in testa. È un posto da tornare, ora lo scalpo del vitello vediamo, ma la trippa fritta, prossima volta, va provata, che diamine! E la battuta con le nocciole? Figuriamoci. Questa sera mi sarebbe sembrato poco pure il crostino con i fegatini di pollo.
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