“Fabrizio? Martina de Meis, ce l’hai un tavolo per stasera?”
“Ti aspetto, ciao.”
Iniziano e finiscono così le nostre conversazioni telefoniche, preludio delle mie tante cene alle Tre Zucche, ristorante di cui Fabrizio Sepe è chef e patron. Zona Portuense, Roma, Fabrizio apre le sue Tre Zucche nel 2006, insieme a due soci, Massimiliano e Federico. “Tre zucche, tre teste pensanti, facevamo le scuole medie insieme, avevamo un sogno in comune, che abbiamo realizzato aprendo questo posto il 13 febbraio di quell’anno”.
Oggi, di zucca ne è rimasta una, Fabrizio: “Massimiliano ha abbandonato la nave quasi subito, nel 2008. Nel 2014 è andato via anche Federico – lo dice con un velo di malinconia – eh, Federico in sala ci sapeva fare”. Oggi c’è Fabrizio, in cucina e in sala. Mai successo che io sia andata a cena da lui e non lo abbia trovato. “Se non ci sono, il ristorante rimane chiuso, come rimane chiuso la domenica, che preferisco trascorrerla insieme alla mia famiglia”.
La passione di Fabrizio per il mondo della gastronomia sboccia da bambino, quando, a sei anni, riprendeva mamma Donata – Donatina, nata in provincia di Frosinone, a Rocca d’Arce, e cresciuta a Parigi, dove ha vissuto almeno fino ai 20 anni – perché, nei suoi piatti, gli pareva ci fosse sempre troppo sale, o troppo poco, perché i dolci erano sempre poco dolci, o troppo burrosi, o chissà cos’altro. “Ero un rompiscatole, ma da lei, ho imparato tantissimo e non solo a cucinare; mia madre mi ha trasmesso il culto per l’ospite, il culto dell’accoglienza, della bellezza, dell’eleganza. Ricordo di non aver mai visto circolare, in casa, piatti di plastica. Capitava spesso che cucinassimo insieme e che sognassimo, un giorno, di poterlo fare in un ristorante tutto nostro”. E il sogno si è di nuovo realizzato, stavolta, per durare nel tempo. Fabrizio e mamma Donata cucinano, ogni mattina, insieme, nella bottega delle Tre Zucche, al civico 49 di Via Mengarini – la stessa in cui si trova anche il ristorante – una gastronomia aperta dalle 10:00 alle 21:00, dove si inizia con la colazione per arrivare all’aperitivo, passando per il pranzo e, perché no, una cena da asporto. “Iniziamo a lavorare alle 8:15. La cucina della bottega è una cucina di casa, nostra, una cucina romana con influenze della Francia di mamma. Qualche volta, prepara le crepe, qualche altra, il purè con burro, rigorosamente senza parmigiano”. Alla bottega lavora anche Paola, la moglie di Fabrizio, che conosco in occasione della nostra chiacchierata. “A fare un’intervista a Fabrizio, non ti basterebbe una giornata intera”.
Io e Fabrizio ci siamo conosciuti circa sei mesi fa, così, quando ci siamo trovati a parlare della qualunque, la prima sera che ho cenato alle Tre Zucche. Era tantissimo che desideravo mangiar lì, poi sempre passato un po’ di mente. Un mio amico mi dice che mi ci deve portare. Con lui non ci siamo andati e allora ci ho portato mia sorella. Quella sera, c’è stato il mio battesimo con il quinto quarto, complice le Animelle di vitella alla cacciatora con funghi cardoncelli, tra il menù La mia Interpretazione.
Alle Tre Zucche, infatti, di menù ce ne sono due: il primo Tra tradizione e innovazione propone piatti della tradizione romana; tra i vari, non mancano coda alla vaccinara, spaghettoni alla carbonara, o i rigatoni con la pajata. Il secondo, quello tra cui si trovava la mia animella, è una rilettura del classico, dove, alla cacio e pepe, è aggiunta la tartare di gamberi, dove la porchetta è usata, insieme alla cicoria, come farcia dei ravioli, dove il saltimbocca è fatto con la spigola.
Una scelta sui generis, quella di Fabrizio. Due menù completi per un unico ristorante. “È il risultato del mio percorso. Le Tre zucche sono un’osterie elegante”.
Due anni dopo l’apertura, Fabrizio riceve il plauso della guida del Gambero Rosso: “Nei primi anni, proponevamo un menù degustazione di 6 portate a 29,00 euro”. La cucina delle Tre Zucche è sempre stata tradizione supportata da studio, sperimentazione. Radici, senza voli pindarici.
“Poi, a un certo punto – rivela Fabrizio – voglio di più, penso che il traguardo sia la rossa, la stella. Stravolgo il menù, riduco il numero dei coperti, inizio a fare una cucina di concetto. Lontana da me e da quello che cercavano i miei clienti, venendo a mangiare qui. Alcuni ne perdo. Mi faccio delle domande. Dove voglio andare? È giusto rinnegare le proprie radici per raggiungere un obiettivo che magari neanche desideriamo così tanto?” No. E allora si cambia di nuovo. Si torna alle origini, alle radici. Alle tre zucche, tre teste pensanti che ne è rimasta una, che pensa e vuole fare quello che gli piace: accogliere gli ospiti, cucinare, render loro felici, fare la spola tra sala e cucina, per accertarsi che tutto vada bene.
“Quella del 31 dicembre del 2017, è stata l’ultima serata del vecchio corso. Da domani si cambia tutto. Si torna alle origini.”
E così è stato. Io, Fabrizio, l’ho conosciuto nel 2019. Ho conosciuto le Tre Zucche con una zucca sola e due menù, che la cosa divertente è che puoi pescare, tra i due, ciò che più ti piace e mangiarti una coda e poi una quaglia e tornare al tiramisù, finendo con le ciambelline al vino e un Moscato rosa dell’azienda Castel Sallegg, da lasciarti di stucco.
Ormai le Tre Zucche per me è casa.
“Fabrizio? Martina de Meis, stasera vengo con i miei. Dobbiamo festeggiare, poi ti racconto.”
L’animella, nel menù invernale non c’è e Fabrizio me l’è andata a prendere dal macellaio nel pomeriggio, sapendo che sarei venuta. Niente cardoncello, al suo posto, il torzello, un piatto della cucina ebraico-romanesca a base di indivia riccia.
Spizzico qualcuno dei bocconcini di coda alla vaccinara, serviti su una crema di sedano rapa, finiti con cacao, crumble di grano arso e grattachecca al sedano. La coda è la coda, il sedano rapa meno invadente del compare più noto. Talmente buona che si fa il bis. Seguo con una quaglia disossata, farcita al tartufo nero con cavolo nero saltato. Bardata con pancetta di Patrica. Mi piace un sacco.
Dessert. Allora, Fabrizio fa un tiramisù da sturbo, ma io stavolta assaggio il maritozzo ricotta e visciole. Buono, ma il tiramisù non si batte, se si va alle Tre Zucche, va preso, anche nella versione mini, proposta nella tazzina da caffè. Io quella sera, dopo il maritozzo, ne ho rubati un paio di cucchiai da quello di mia sorella, che aveva preso la versione standard. Ovviamente. Chiudiamo con le classiche ciambelline al vino. Saluti e baci. E ci si vede a breve.
Fabrizio è un perfetto padrone di casa. È sorridente, entusiasta. Fabrizio è felice di averti a cena da lui. E io adoro questo, delle Tre Zucche. Lontano dalla Roma pulsante, dalle vie dello struscio. “Qualche volta lo odio questo posto, sogno di spostarmi, di aprire un ristornate in una strada centrale, poi, però, penso che questo è il mio posto, che mi mancherebbe tutto quello che ruota intorno a Via Mengarini, la signora del terzo piano che, tutti i giorni, viene a pranzo alla bottega, insieme all’amica del palazzo di fronte. Le storie d’amore nate al ristorante. Mi mancherebbe la dimensione umana. E allora resto qui, dove, alla fine, ci son venuto anche ad abitare con la mia famiglia”.
Sorrido, chiudo il taccuino. E una signora sulla settantina, mi si avvicina e mi dice: “È proprio un bravo ragazzo, questo!”. E Fabrizio non la conosceva, ma è così. La dimensione umana, il ritorno alle origini. All’essenza.
Le Tre Zucche è un posto del cuore e Fabrizio tra gli ospiti preferiti.
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