Ho preso appunti, ho fatto foto, domande, ho chiesto di ripetere descrizioni di piatti, vini, ma niente potrà rendere ciò a cui, Alessandro Miocchi e Giuseppe Lo Iudice, i ragazzi di Retrobottega, ogni volta, riescono a dar vita.
Twenty bites, venti morsi, la degustazione di un intero menù, in una sola serata. Io non ho parole. Le 3 di notte e sono qui a scrivere. Leggera, felice, sognante. Ho mangiato 20 piatti diversi, accompagnati da altrettanti vini. E niente è fuori posto, niente di troppo.
Ero emozionata. Conosco Retrobottega da quando c’erano i piatti in cellulosa, poi vetro e ceramiche e poi il pop up restaurant in Prati, conosco Retrobottega, da quando il vino, andavi nella cantinetta all’ingresso, te lo sceglievi e te lo aprivi da solo, da quando il menù in lavagna, da quando la fila fuori, che Retrobottega è l’unico posto per cui ho accettato di aspettare. Io che sono impaziente, di corsa, tutto subito. Poi si rinnova, ferro, luci soffuse. Ventisei coperti, le posate sono nel cassetto, come sempre, ma le posate, ogni volta, te la portano, quelle utili a mangiare il piatto del momento. Stasera, in due occasioni, ho dovuto tirar fuori anche il cucchiaio, perché la salsa non rimanesse lì, sul fondo del piatto a guardarmi, ingiusta.
Stasera 20 morsi. Amo mangiare. Bene. E ciò che amo, lo amo proprio tanto. Felicità incontenibile. Oggi mi sono fatta un regalo. Un posto – di sei – al tavolo dello chef. Alessandro in cucina, Edoardo e Alessia al pass, Giuseppe – ogni tanto mi suggerisce qualcosa: “Questo, cerca di mangiarlo in un unico boccone”. Una squadra impeccabile. Tutto armoniosamente coordinato. Uno spettacolo di cui sei coprotagonista. Retrobottega non è un posto. Un’esperienza sembra riduttivo, che mille ristoranti per me sono e sono stati un’esperienza ed è bellissimo. Ma Retrobottega di più. Perché esci che sei diverso, magari anche solo più sorridente. Sei più ricco. Scopri nuovi sapori, odori, fragranze, consistenze. Conosci persone con cui ti confronti, perché noi sei – che eravamo cinque – si mangia, tutti insieme, la stessa portata allo stesso momento, come una tavolata di amici che non si conosce, come commensali a casa di un ospite generoso.
Io ero eccitata. L’ho già detto? Quasi ansia da prestazione. Poi ti siedi al tavolo, al banco, al pass. E si comincia. I piatti non vengono serviti nell’ordine in cui sono indicati su quello che sembra il tabellone di un gioco da tavolo.
Iniziamo con un entrèe, pancotto e maionese in carpione. E poi cinque antipasti, cinque primi, cinque secondi, cinque dolci. I miei preferiti? Non lo so. La cosa meravigliosa è la capacità di ogni piatto di lasciar spazio ai singoli ingredienti che lo compongono, ognuno emerge, ad ognuno è lasciato il proprio momento di gloria perché poi rientri, perfettamente legato e in armonia con tutti gli altri.
Il piatto della serata forse è stato il Risotto Ricci e Tartufo , anche se non è quello che mi è piaciuto di più, ma come diceva Emil Cioran:
“Ritengo che si scriva per far male. Nel senso superiore del termine. Per sconcertare, perché io stesso, tutto quanto ho letto nella mia vita, l’ho letto per turbarmi. Uno scrittore che, in un modo o nell’altro, non vi martirizza, non mi interessa. Occorre che qualcuno vi faccia soffrire, altrimenti non vedo la necessità di leggerlo”.
Uscire dalla propria zona di comfort.
Non amo i ricci, anzi direi proprio che, potendo, li evito. No, grazie. Non amo ciò che sa troppo di mare, in genere. Ma la mia filosofia mi impone di mangiar tutto, che un senso lo troverò. E che il gusto va educato, le papille, disciplinate. Ecco, io la sensazione che ho avuto al primo boccone del risotto è stato bosco. E mare. E poi una carezza di velluto e poi c’erano i chicchi a massaggiarmi la lingua e la bocca tutta. Delicato e intenso.
Questi i miei appunti, sconnessi e scardinati, il vino in accompagnamento un Effusion del 2017 di Patrick Baudoin, forse, il preferito della serata:
”Risotto tartufo bianco ricci e gamberi (effusion Loira) mare tartufo sa di bosco il vino esalta il mare che torna prepotente il mare nel bosco cazzo buono”.
Abbiamo finito di cenare verso l’una. Ristorante ormai vuoto. Ci siamo solo noi che continuiamo a far festa, tra sambuca con la mosca, liquirizia e quant’altro.
Poi è ora di andare. Ci scambiamo i contatti con Jenny, che viva a Dublino, di Frosinone, che parla in portoghese e ha un piglio parigino e con Marzio, avvocato, di Roma, con origini eritree, che mercoledì è il suo compleanno e sarà a Milano, alla Locanda Perbellini, che mi parla del Noma, come posso parlare io della pizza a taglio sotto l’ufficio, in pausa pranzo.
Saluto Alessia, Edoardo, veri intrattenitori di una serata indimenticabile. Giuseppe e Alessandro. Torno alla macchina abbandonata a caso, cammino sulle punte per evitare che i sampietrini incidano i tacchi. Perché sono leggera. Che bellezza.
Quando ti alzi, alla fine dei morsi, vorresti solo abbracciare Alessandro e Giuseppe e dir loro: “Grazie”. Grazie per aver reso la tua serata speciale, per aver concepito una storia bellissima, fatta di cibo, vino, passione, entusiasmo, fatica, cuore, una storia che dal 2015, non smette di sorprendere.
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