A me il clima freddo ha sempre ispirato gite fuori porta nei dintorni romani, dove freddo ne fa di più, dove l’inverno è serio e l’unico antidoto diventa il calore di una tavola dai sapori tradizionali e schietti, di una tavola verace che scaldi il corpo e l’animo con la sua franchezza, una tavola accogliente con la simpatica, talvolta irriverente, semplicità che solo il vero romano – e il romano dei dintorni è sempre un vero romano – sa dare.
Detto questo, sabato scorso mi vien voglia di Castelli, di cibo corroborante che culli e ristori, di ambienti caldi, che di fronte al freddo esterno, facciano sentire protetti, al sicuro. Meta della serata: Oste della Bon’Ora. Una vita passato a sognarlo e il mio ragazzo che con una telefonata risolve sempre i miei viaggi onirici. Non ci sarà mai posto, penso, ma lui prenota per le 20:30. Ci diamo il cinque e partiamo alla volta di Albano Laziale, a cui mi legavano entusiastici ricordi bambini di Ristorante Pagnanelli vista lago e passeggiate postprandiali lungo il corso. Albano delude un tantino le aspettative, che si rianimano solo con un aperitivo al Casa Victoria Bar, posto molto carino, molto stile Madre, poco stile Albano.
I ragazzi sono davvero cordiali, sorridenti e attenti alle esigenze del cliente. Insieme ad un calice di prosecco, portano stuzzichini ben presentati e gradevoli: una panzanella, uno spaghetto con il pesto e classicone pinzimonio. Molto carino, ma la voglia di ignoranza recalcitrava e così essendo rimasta una mezz’ora di buco, facciamo un salto ad Ariccia e nel secondo negozietto sul corso – mai cedere al primo, l’ingordigia gioca sempre brutti scherzi – ci prendiamo un vassoietto con due etti buoni buoni di porchetta, “‘mpo’ di crosta (cotenna, n.d.r.) ve la metto ragazzi?” E metticela un po’ di crosta che ci sta bene e anche due fettine di pane, che tanto stiamo andando a cena. Mangiamo la porchetta in macchina mentre sbagliamo strada e ungiamo di grasso il cellulare che tentava di indicarci la retta via.
Nonostante tutto, venti minuti e lasciamo la macchina nel parcheggio privato antistante il ristorante. Felicità. Il locale è ancora semivuoto e abbiamo la possibilità di scegliere la nostra accomodation. Primo quarto d’ora trascorso a rimbalzare tra il tavolo in una saletta calda, ma fronte bagno e un po’ algida e sala al semipiano superiore, più fredda, ma davvero bella. Massima indecisione, ci plachiamo solo all’esclamazione accorata dell’Oste Massimo Pulicati: machecazzostateaffà. La sala prescelta è davvero accogliente, sembra di essere nel salone di casa del nostro ospite. Un salone con una grande affollata libreria e tante vetrate di contorno. Siamo in un’osteria, ma il locale è davvero su di tono, i tavoli sono ampi e spaziosi, ragionevolmente pochi e ragionevolmente distanti l’uno dall’altro, mise en place minimale ed elegante. L’ambiente risulta caldo, nonostante la veranda, il legno scuro della libreria e il cotto – o simile – del pavimento la fanno da padroni. Il servizio è giovane e molto cordiale. Ci portano i menù, non vogliamo fare degustazione, vogliamo abbondanza.
Un entrèe di pane carasau con su una mousse di erbe aromatiche, cipolla in agrodolce e fiori di fiordaliso ci da il benvenuto nella cucina schietta e franca dell’Oste della Bon’Ora.
Proseguiamo con un tagliere di salumi e formaggi, che avevamo visto essere assai invitante, e un millefoglie di pane carasau (again) provola e broccoletti saltati. Il tagliere è ricco, marcata la prevalenza dei salumi sui formaggi, ma entrambi sono ricercati e mai banali, spicca il ricordo di un salame al pistacchio e poco altro. L’età avanza e con il suo incedere la memoria dà forfait. Il pane carasau è semplicemente divino. Tanto e saporito. Irresistibile scioglievolezza. Gli strati di pane seppur imbevuti di provola, mantengono il loro carattere e il loro ruolo di semicroccantezza e leggera consistenza. Ottimo. Seguono una gricia e una amatriciana, che non ho assaggiato. La griScia era molto molto buona, condimento abbondante, guanciale in ogni dove, tagliato a listarelle, dorato e libidinoso.
Per secondo ordiniamo Straccetti di Fassona piemontese “La Granda” alle erbe aromatiche fresche e trippa alla romana, che non assaggiato. Gli straccetti non mi hanno fatto impazzire devo dire, buoni, ma senza uau, un po’ così, surclassati di gran lunga dal contorno – ordinato a parte- di patate di Avezzano aglio, olio, pepe e rosmarino. Memorabili, davvero. Piccoli tocchetti di felicità. Annaffiamo il nostro lauto pasto con un vino ovviamente laziale, un cesanese del piglio di Coletti Conti, l’Hernicus 2013.
Siamo pieni, ma io vedo circolare un tortino dal cuore caldo. Personalmente non sono un’amante dei dolci al cioccolato, ma il tortino se fatto bene è tra i miei dolci preferiti. Lo ordino, umiliando il mio ragazzo che, stremato, passa direttamente al caffè. Buono, la densa liquidità dell’interno non delude, ma lo avrei apprezzato di più un cioccolato con una percentuale di cacao maggiore. Al palato è flebile, con poco carattere, poca persistenza. Forse troppo elegante per la mia concezione di tortino al cioccolato.
La cena termina con la piccola pasticceria: una crostatine con confettura di albicocche e lamelle di mandorle e una mousse al caffè con amaretti.
Ho adorato l’Oste della Bon’Ora, il cibo, il calore; l’ambiente è esattamente ciò che desideravo trovare in una gita ai castelli, ma con cura, ricerca e gentilezza, colorita dalla schiettezza dell’Oste, che si occupa dei suoi ospiti come perfetto padrone di casa, scherzando con loro, senza mai essere invadente.
Tornerò di certo, anche se l’inverno è finito e le temperature iniziano ad alzarsi. Magari, senza la strada bagnata di pioggia, eviterò pure lo scivolone appena uscita dal locale, di cui, insieme alla fantastica cena, porto ancora il sensibile ricordo.
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